Carlton Myers raccontato da Bianchini

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Quaranta anni suonati, più della metà dei quali trascorsi a prendere a schiaffi un pallone e spicchi, a fare a sportellate con gli avversari, a segnare punti decisivi per i propri colori. Ma anche i miti tramontano prima o poi. Miti come Carlton Myers, uomo simbolo della pallacanestro italiana o “artista del canestro” come lo ha definito su Repubblica Valerio Bianchini, che fu suo coach ai tempi di Pesaro e Bologna:

Carlton è uno di quelli che ogni tanto il cielo manda sulla terra e diventa l’immagine del suo sport. Uno diverso dagli altri. Come è l’artista e lui è stato un artista. Figlio di un musicista, è cresciuto in un ambiente di artisti. Il padre mi raccontò che un giorno al telefono un collega gli chiese quale disco stava ascoltando in sottofondo. Ma era Carlton bambino che suonava il sax.

Poteva diventare un musicista, ma il basket lo rubò alla musica (e meno male!) trasformandolo in uno dei più grandi campioni che abbiano mai calcato i parquet nostrani.

Bianchini ne tesse le lodi e ne esalta le qualità tecniche:

Il basket è un gioco americano, fatto per i neri. Lui è stato la sintesi tra un ragazzo di colore ed il basket che si giocava in Italia. Non si può dire di lui che sia stato giocatore dai fondamentali raffinati. Ma aveva un grande atletismo, una determinazione straordinaria, un’intensità morale feroce. Il suo modo di essere attaccante era a 360 gradi, il tiro come la penetrazione. Il suo arresto in area era una sfida alla forza di gravità che lui vinceva, galleggiando, mentre gli altri ricadevano. Ed in difesa metteva fisico, reattività, aggressività.

Tante battaglie vinte, tanti trofei messi in bacheca, tanti record inanellati e frantumati. Scende il sipario sulla carriera professionistica di Carlton Myers, ma  resta il ricordo di un giocatore unico.

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