Adidas e Josh Smith portano l’Nba a Milano: l’incontro – GALLERY

Spread the love

Occhi da ragazzo su un corpo da gigante. “Prima della gara? – racconta con un sorriso accennato – Nessuna scaramanzia ma almeno un’ora di sonno devo farla”. Lo sguardo non smentisce la carta d’identità – 25 anni – sebbene le manone di Josh Smith stringano decine di altre mani con la tempra di un’esperienza di vita già importante. Non si comporta da stella del firmamento nonostante i riflettori, le telecamere e i flash delle macchine fotografiche siano lì solo per lui. Milano lo accoglie in piazza Cannone sotto una pioggia costante ma fioca.

Non appena l’ala degli Atlanta Hawks calca l’area dirimpetto al castello Sforzesco, tuttavia, il maltempo concede una tregua. Un timido sole si affaccia e irradia calore. Tra centinaia di appassionati di pallacanestro che si alternano sui campetti predisposti da Adidas in occasione dell’NBA 5 United tour 2011, l’americanone arriva in silenzio. Per non disturbare i due quintetti in gara ed evitare di calamitare su di sé l’attenzione di una platea che, in ogni caso, attende solo di sentire lo speaker che ne annunci la presenza.

Pare timido, sicuro di sé ma pacato nei modi e nei gesti. Dà l’impressione che poche star sanno trasmettere: quella  di avere una vita semplice e normale. E di pensare a come difenderla nel migliore dei modi.

“I social network? Non li uso perché non fa parte del mio carattere rendere pubblico il mio privato. Mi piace conservarlo e preferisco di gran lunga il contatto diretto con le persone e i fans”.

Tenergli gli occhi puntati negli occhi costa la fatica di un torcicollo: i 207 cm di altezza gli consentono di svettare. Non fosse un giovane fenomeno dell’Nba, basterebbero anche solo i centimetri di cui l’ha dotato madre natura per garantirgli una fetta di notorietà.

Invece, Smith ha iniziato a inanellare canestri e stoppate sui parquet dei più importanti stadi a stelle e strisce. Ha cominciato a tenere a bada quei satanassi di LeBrone James e Kobe Briant nel corso della regular season. Ha provato a mettere un freno all’indemoniato Derrick Rose di Chicago, al quale gli Hawks si sono arresi dopo una serie combattuta. Ha tentato di far compiere ad Atlanta, dove gioca dal 2004, il salto di qualità che si attende da tempo mettendo in fila prestazioni da applausi. I play off, in ogni caso, non sono andati come sperava:

“Sono rimasto male per l’uscita della mia squadra. Credo che siamo stati capaci di produrre buon basket ma nelle fasi finali è mancato proprio lo spirito di unità, è venuta meno la forza del gruppo. Mi è dispiaciuto soprattutto perché siamo stati meno bravi di quanto sappiamo in fase difensiva mentre si avevano mezzi e possibilità per cercare di andare fino in fondo. Negli ultimi tre anni siamo cresciuti molto, non è ancora sufficiente ma ci riproveremo senza alcun dubbio. Un voto alla squadra? 7,5. Io non faccio fatica a darmi un punto in più solo perché ho saputo essere costante per tutta la stagione. Dopo sei anni di professionismo so che non smetterò mai di imparare ma i progressi che faccio mi rendono soddisfatto e orgoglioso”.

Atlanta la bella incompiuta, si sente ripetere da più tempo a primavera inoltrata: l’impressione che dà il quintetto dell’eastern è che  continui a risentire di poca esperienza e scarsa grinta nei momenti decisivi. Avere Smith in squadra è un punto di forza evidente e, a questo punto, un’ottima partenza in vista del futuro:

“Cambiare qualcosa? Si vedrà – afferma il cestista – ma non servono molti rinforzi. Il nucleo attuale è importante, va solo ritoccato, non certo stravolto”.

Archiviato (Atlanta) il campionato giunto agli sgoccioli – “Mike Bibby (play dei Miami Heat, ndr) alle Finals? Sono contento, è quasi un fratello maggiore. Per chi faccio il tifo tra Miami e Dallas? Spero che Nowitzki possa vincere, se lo merita” – Smith ha deciso di accettare l’invito di tenere a battesimo la prima tappa in terra lombarda di un tour cestistico che toccherà le principali città mondiali.

Un occhio ai campi in cui è in scena il torneo 5 vs. 5 – “Wonderful”, gli scappa di dire mentre un talento sconosciuto mette a canestro con un’azione personale cominciata dalla propria lunetta – e un orecchio alle miriadi di domande che si alternano. E’ l’occasione per ribadire quanto sia importante, per apprendere e fare propria una mentalità sportiva e leale, la frequentazione del college; è il momento per confermare quanto sia stato determinante il basket ai fini della crescita dell’uomo:

“Devo tutto a questo sport che è significato per me coltivare una passione che nutro da sempre e capire quale sia l’importanza del sacrificio. Ho una grande opportunità: competere con i migliori al mondo. Non è un’occasione da fallire anche perché non mi ha mai spaventato affrontare i più forti. Nutro rispetto per i miei avversari, non paura. E’ il motivo per cui, quando mi si chiede di fare un nome tra tanti, preferisco non farne. Quando sono in campo, so di potermela cavare sempre. Lo stimolo del pubblico? Enorme”.

Enorme. Come quelle mani su braccia tatuate fin dal polso. Mani che si svincolano dal corpo in gesti repentini: mentre si racconta, Smith le sfrega spesso mettendole in bella vista. Sembrano pale con cui stoppare chi tenta di incunearsi verso il canestro, pare davvero un gioco da ragazzi.

“Tutt’altro che semplice – smentisce prontamente Smith – la stoppata  è davvero un odei gesti più difficili perché richiede concentrazione e attenzione maggiore oltre che enormi dosi di furbizia e intelligenza. E’ la mia specialità? Diciamo che me la cavo”.

E gli italiani, viene da chiedere, riescono a cavarsela anche loro?

“Non solo gli italiani ma anche molti altri europei: diciamo che l’Nba è oramai diventata internazionale e si avvale del contributo di molti cestisti provenienti da luoghi lontani dall’America. Io sono di Atlanta, per me giocare negli Hawks, la squadra della mia città, è un sogno ma va riconosciuto che è anche grazie agli europei se il nostro basket migliora sempre più. Non sono da meno, rispetto agli altri, i tre italiani: se la cavano egregiamente e stanno facendo bene. Tra tutti, il più tosto resta Bargnani”.

Le new entries garantiscono un confronto interessante e offrono l’opportunità di confrontarsi con un modo di fare basket sicuramente differente da quello americano ma quando pezzi di storia decidono di lasciare per sempre, già si sa che nessuno sarà in grado di prenderne il posto:

L’addio di Shaq? Mancherà eccome, Shaquille O’ Neal. Per le qualità, per il carisma e la simpatia. Ho bei ricordi di lui, lo stimo davvero e, per quanto mancherà alla Federazione, gli auguro solo il meglio per il futuro”. Che sia uno dei riferimenti dell’adolescenza di Josh Smith? “Ce ne sono tanti, ovviamente. Ma chi ha saputo influire più degli altri è senza dubbio Michael Jordan. Lui più di tutti”.

Arrivare fin lassù, a incrociarne lo sguardo e i pensieri è uno sforzo fisico notevole. Altro che andare a canestro. Lui osserva, sorride e si guarda tutt’intorno per capire cosa gli abbia riservato la tappa milanese. Lo incuriosisce il buffet che riempie un tavolino collocato in posizione defilata; lo attirano i fans che attendono all’uscita e che non gli risparmiano cori di affetto e stima per i quali Smith ringrazia coi pollici sollevati, con l’occhiolino rivolto in direzione della voce da cui fuoriesce un baritonale: “Josh, you’re the best”. Curioso, partecipe, interessato.

Quando, tuttavia, lo si scorge a dare una sbirciata al campetto su cui altre due squadre si stanno affrontando, quegli occhi smettono di fuggire fugaci da destra a sinistra. E, quasi bloccati da un freno motore,  inchiodano a seguire il movimento di una palla arancione che passa di mano in mano. Si capiscono così poche cose, in una manciata di minuti, ma quelle che si riescono a focalizzare sanno svelare verità incontrovertibili. Allora, se osservare Smith nel rigoroso ed impeccabile rispetto di un cerimoniale – autografi, foto, saluti e battimani – significa cogliere il lato più adulto e razionale del fenomeno in quota agli Hawks, puntargli lo sguardo nello sguardo vuol dire captare il silenzioso e spassionato appello di un ragazzo 25enne con litri di passione nelle vene e un sorriso gentile.
Datemi un pallone – sembra chiederti – lasciatemi fare.

L’inviato
A. B.

Lascia un commento