La voglia di LeBron di essere LeBron

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INSIDE NBA – Partita capolavoro e Grande Slam personale di James che ha trascinato Miami al  suo primo titolo dopo aver recuperato con Indiana, salvato un match ball con Boston e da 0-1 con Oklahoma. MVP della stagione per la 3.a volta e della finale, oltre a Miglior Difensore e anche taumaturgo grazie alla psicanalisi.

“Maledetto, finalmente sei arrivato!”

ha esclamato LeBron quando giovedì notte del solstizio d’estate, il  giorno fatidico di miti e leggende popolari,   ritrovandosi finalmente  fra le mani il trofeo dedicato a  Larry O’Brian, avrebbe voluto “strozzarlo” con le sue manone gigantesche, simili per dimensioni a quelle di Michelangelo ma dai polpastrelli vellutati, da grande artista. E’  stata faticosa, irta di difficoltà, esami, polemiche,  questa sua sfida da Prometeo per rubare agli dei il fuoco sacro, e guarda caso è proprio un anello dentro la quale arde una fiamma il logo degli Heat.

La sfida LeBron  Raymone James l‘ha cominciata 9 anni fa quando il ragazzo di una poverissima signora di Akron (Ohio) abbandonata dal marito, costretta ai lavori più umile e chiedere  ospitalità per la notte agli amici per quel suo figlio che cresceva a dismisura,   portato  per il  football e il basket, riuscì ad arrivare alla NBA fra le polemiche costringendo a cambiare  i regolamenti.

La signora James  però non sapeva, in quegli anni,  quale tesoro avesse tenuto  in grembo, anche se il kid è diventato nel frattempo una montagna di muscoli e con quel pizzetto LeBron sembri un profeta. Nove anni  dopo il  rumoroso  passaggio diretto di LeBron dal liceo alla NBA,  il St.Vincent-St,Mary, grazie a un debordante talento che permetteva a  una squadretta liceale di essere ospite di un’arena da 16 mila posti, tanto era la curiosità e l’entusiasmo per i numeri del ragazzino James ha coronato il suo sogno.

Scelto nel 2003 come n.1 del draft, dopo 7 stagioni a Cleveland ha scelto la Florida per arrivare al titolo. E conquistato il suo primo anello con un copione perfetto, che lo ripaga della lunga attesa  al punto che in senso pirandelliano “ la realtà  (ovvero, il livello delle sue gare in questi playoff) è stata superiore all’immaginazione”.
Arrivato due stagioni fa a Miami da Cleveland,   James ha dovuto aspettare fino ad oggi, ma è stato consacrato “leggenda del basket”  in questa stagione corta per il lock out dimostrando  tutto l’anno (e abbondantemente nei playoff)  di avere qualità straordinarie grazie alle quali, fin da giovanissimo, si è meritato il nomignolo di The Chosen, Il Prescelto.

Avesse perso Miami, pur avendo per la terza volta vinto il titolo di MVP della stagione e di Miglior Difensore, anche senza averne la minima responsabilità per quel cinismo proprio dello sport che premia troppo i vincitori e condanna troppo gli sconfitti, qualcuno avrebbe ricamato maliziosamente sulla sua capacità di trascinatore indiscusso. Anche nelle non molte partite perse è stato sempre il miglior in campo, il punto di riferimento e nei playoff si è calato nei panni del taumaturgo, aiutando un grande campione come Wade a uscire da una crisi pericolosissima, specie perché  in quel momento è venuto a mancare Chris Bosh, uno dei Big Three, e la squadra aveva perso due volte consecutivamente contro Indiana subendo anche la polemica  di Frank Vogel che accusava gli Heat  di essere dei “cascatori” patentati , di ingannare gli arbitri.

E inoltre Shane Battier, il jolly della serie finale, non aveva queste percentuali,  e Mike Miller non aveva giocato in 11 stagioni una partita tanto devastante come quella finale che ha fatto pendere la bilancia in maniera decisiva, la gara più bella nei playoff anche se è stato un punto sotto il suo record, 24 punti contro Milwaukee. Non solo: Erik Spoelstra continuava a smazzare il quintetto, fortuna ha voluto che il coach arrivato dall’incarico di addetto al videotape e alle nuove tecnologie alla panchina agisse sotto l’ala paterna di Pat Riley e fosse per LeBron una delle tante prove  difficili da superare, non un problema primario, facendo tesoro dell’enorme lavoro fatto su se stesso la scorsa estate quando decise, come fanno tutti i grandi campioni di golf in cerca di una forte identità, di passare ore e ore su uno lettino di uno psicanalista, e togliersi quelle scorie che gli impedivano di tradurre anche una forza mentale pari a quella del suo gioco e quella fisica.

Il LeBron che va in analisi fu deriso e sbeffeggiato, chissà quanti colleghi lo imiteranno, o cercheranno di migliorare il proprio equilibrio, come sta cercando in questi giorni Kobe Bryant che, ad esempio, ha usato come una molla positivo la pratica di divorzio, fino a quando Vanessa, la moglie tradita, l’ha perdonato tornando Solo il  Prometeo del basket poteva chiudere la stagione con una memorabile tripla-doppia  26 punti, 11 rimbalzi, 13 assist, più della metà di squadra, una cifra possibile solo agli artisti del passaggio Rajon  Rondo e Steve Nash e firmare il suo  Grande Slam personale aggiungendovi lo scudetto della NBA mancante rispetto a tutti i grandi degli ultimi 20 anni, a cominciare da Jordan,  e il trofeo di MVP della finale. Anche se nella gara decisiva  Mike Miller, uno degli sportivi  filantropici  più significativi  che assieme alla  moglie, ex pallavolista , ha creato una Fondazione per aiutare i giovani, con 7 canestri da 3, e un punto al minuto, ha demolito psicologicamente Oklahoma che, a sua volta, si era giovata del crollo di san Antonio.

LeBron ha spostato dopo vari anni anche il primato  della NBA all’Est, in una finale la sua eccezionalità era scontata anche se in questa corsa ad handicap anche contro Oklahoma, battuta poi 100-96 sul suo campo e in seguito 91-85, 104-98 e pesantemente alla quinta, 102-106 dopo aver avuto 27 punti di vantaggio,  le prove più difficili sono state risollevarsi con Indiana sull’1-2, due sconfitte con 75 punti, con Bosh fuori,  Wade irriconoscibile e visto bisticciare sol suo allenatore, e  aver annullato il match ball ai Boston in quella che, in fondo, può essere considerata la vera finale, perché perdendo quattro gare di seguito Oklahoma ha sciupato una grossa occasione, ma alla fine non è stato sufficiente Kevin Durant, davvero una grande stagione, e  Russell Westbrook ha finito l’anno forzando il tiro, 4 su 20, 0/5 da 3, una grande responsabilità su questa difesa “frontiere aperte”, statica, rassegnata dentro la quale Perkins ha mostrato tutti i suoi limiti, Sefolosha è stato schiacciato da LeBron, Ibaka c’è solo col gioco di squadra, e non è bastato James Harden, Miglior sesto Uomo,  mentre non si è avverata la profezia di Derek Fisher che scaricato dai Laker aveva detto che avrebbe giocato nella squadra vincitrice del titolo.

Nella storia dei gbrandi campioni di sport ci sono le annate di grazia, ad esempio Adriano Panatta vinse nel 2006 Roma e Parigi  nel giro di una settimana, e popi a dicembre la Coppa Davis. E poi niente più di quel livello. Miami che ha sofferto per tutta la stagione, ha rincorso con Chicago, poi con Indiana e Boston e dopo lo 0-1 di Oklahoma ha trovato la sua settimana prestigiosa, e fra il 14 e il 21 giorno ha vinto le quattro gare, è andata al traino di LeBron che ha segnato 28.6 punti, 10.2 rimbalzi e 7.4 assist , ha sfiorato una tripla-doppia di media, forte della sua autoconvinzione è stato appunto, col pizzetto da profeta, la serenità, il tocco, la capacità di essere decisivo su ogni palla, di segnare in mezzo a tre o in controtempo, cambiando mano in volo, ma anche lavorando in difesa, portando blocchi, giocando post basso e trasmettendo una serenità e una sicurezza che alla fine, alla resa dei conti, ha spazzato via nel terzo tempo i rivali.

Miami è andata via via crescendo, per gli otto decimi della stagione ha tirato malissimo da 3,  e invece questo è stato il fattore chiave della partita, 14-26 , il 53,8, il picco stagionale contro il 27,3 di Oklahoma. Miami è salita, mentre i rivali sono scesi. Rispetto alla stagione, da 96,5 a 102 punti, leggermente meglio nei rimbalzi (40,2 contro 40,1) e negli assist (18 contro 17,3) e il tiro (46,4% contro 46), un solo tiro da 3 in meno (19,5 contro 19,6) ma col 42,9% cointro il 34,7%. Oklahoma in calando negli assist (-2,2), nei punti (-3,3, nei rimbalzi (-1,8), nei 3 punti (19,2 contro 21) , nei liberi (confermati i 23,8 ma col 77,3% contro l’82% della r.s., 5 punti in meno nel tiro da 3, dal 35,5% al 30,5 della serie.

“Ho voluto andare velocemente in cima e poi toccare il  fondo l’anno passato  per capire cosa dovevo fare come un atleta professionista e come persona”, ha confessato dopola vittoria spiegando la metamorfosi da giocatore “immaturo” a una figura umile e introspettiva.. “Ero già  felice di poter tornare  in questa posizione, e felice ero in grado di farlo nel modo giusto, e farlo  per me e per nessun altro, tutto ciò che è venuto è stato la conseguenza. Ho dovuto imparare attraverso di esso. Nessuno aveva vissuto quel viaggio, così ho dovuto farlo per conto mio. ho dovuto capirlo con la mia testa”..”La cosa migliore per non perdere più  le finali – ha spiegato –  per me era giocare come ho giocato, perché in fondo, sono tornato alle origini, sapevo che stavo per cambiare come un giocatore di basket e come una persona per ottenere ciò che volevo.”

LeBron non è certo un tipo  – osserva Wade – che permette di farci capire cosa vuol dire LeBron James.Nessuno di noi lo sa. Ma sono contento per lui. Non so se potrei essere più felice di un’altra persona quanto sono felice per lui. Io so quello che ha passato per arrivare a questo punto”.
In questa vittoria c’è anche lo zampino di Pat Riley, l’architetto di questa squadra, anche se il trofeo è stato sollevato da Miki Arison, una sorta di amministratore-manager. Riley ha vinto il suo ottavo scudetto in carriera, come giocatore, allenatore e dirigente. Sua l’idea di puntare su Erik Spoelstra, una mezza macchietta sul capo del quale i giocatori hanno rovesciato un bidone di Gatorade. “Grande, grande, grande impresa. Non so se qualche altra squadra sarebbe stata capace di vincere così a fine stagione.

Dall’allenatore ai giocatori, lo staff, gli impiegati, tutti hanno contribuito a questa impresa”. “Abbiamo costruito – ha sottolineato – una squadra che per alcuni anni può stare a questi livelli, e farci vincere queste emozioni”. Ha escluso, come si sente dire, un suo ritorno in panchina. “L’allenatore  deve vivere intensamente con i giocatori, percepire le aspettative del pubblico, dare di sé tutto in ogni momento, e non sarei più in grado di farlo”, ha concluso difendendo il giovane coach di sangue filippino sempre sorridente, una marionetta tutto sommato non ingombrante che stava bene a  LeBron e Riley, perché non dava ombra.

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