Sauro Bufalini addio, “il basket è un’altra cosa”

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Domenica maledetta domenica.   Spero sia solo uno di quegli scherzi del 1° di aprile, in effetti c’è anche quello  nel  giro di 10 minuti mi arrivano un paio di notizie ferali. Quella autentica, purtroppo, è la peggiore. Arriva da  Pisa  e ce la comunica  Guido Carlo Gatti con una voce incrinata dall’emozione per la profonda amicizia che lo legava al totem pisano da quando condivise i primi due scudetti dell’Ignis. Se n’è andato Sauro Bufalini. Sì  il mio Grande  Sauro che mi caricava spesso, ai tempi della mia adolescenza a Varese,   sulla sua bella Giulietta Spider azzurra per far benzina al Valico di Mendrisio, per risparmiare sul pieno, sui dadi, la cioccolata e il caffè.

Mai dimenticherò la gag da Amici Miei, il film di Monicelli, quando, con l’auto  in secco a 50 metri dal passaggio doganale,  Saurò mi diede quest’ordine

“Enrichino, mettiti al volante!”

Non avevo ancora l’età per la patente, le gambe mi tremavano, e lui a spingere l’auto oltre la sbarra sotto gli occhi increduli dei finanzieri. Come si faceva a cavillare, anche se in divisa,  con un uomo tanto imponente e  due occhi liquidi e pieni di umanità e il viso  tanto simpatico?.

Di Sauro, nome mitologico,  il mio capo è pieno di gioiosi ricordi e di qualche rimpianto. E me  ne dolgo ancor più  scorgendo  adesso la copertina di “Pastorale Americana”, il best seller che narra la vicenda di un campione di basket di Philip Roth. Il volume  occhieggialì, un po’ seccato,  sul mio comodino in quanto doveva essere il regalo  per il  suo 70° compleanno, il giorno di quel famoso convivio vicino a Pisa  che mi sono perso a dicembre.   Grazie però  a un collega  mi ha procurato spasso e ammirazione in quanto  finito  attraverso a un’intervista sulla stampa e su Google come un manifesto contro il basket-cialtrone, spossato, reso deforme dall’incompetenza e da personaggi plastificati.

Tanto diverso quel tempo e quel basket  dai magnifici fusti degli Anni Sessanta come lui,  giovanotti intraprendenti, quasi tutti figli del popolo con qualche nobile vero, Guidocarlo Gatti marchese di Gubbio, i sangueblù  della Stella Azzurra del Collegio De Merode (quello se non erro di Mario Draghi e tanti politici,  equiparato al Leone XIII  milanese che ha svezzato Monti). Vale a dire  il marchese ligure Ciccio Dal Pozzo e il siculo Stefano Albanese barone di Mongrifo.

La maggioranza erano i figli dell’oratorio o del ricreatorio, quelli delle colonie marine, però   fecero l’Olimpiade romana scoprendo che in fondo erano colleghi dei mitici  Bill Russell e Oscar Robertson  per cui sullo slancio dell’inaspettato quarto posto olimpico,  il basket italico  divenne grazie a loro e al loro professore, Nello Paratore col quale giocavano a tressette perché non c’era ancora il videotape,  uno sport popolare che diventava fenomeno sociologico ispirandosi all’America. E  la nazionale azzurra, divertendosi per il clima che si era instaurato e qualche rivalità spassosa, per gli otto anni successivi fece apparizioni entusiasmanti anche nelle principali rassegne continentali, compreso un mondiale sudamericano quando nel tempo precedente, quello delle sfide al Vigorelli o all’Arena di Milano, era quasi cristallizzato da  una sfida coi francesi.

L’altra notizia, choccante per l’impatto sociale, si é rivelata invece una “bufala”. Avevo tentato di verificarla, il telefono del soggetto era staccato, me ne scuso con i lettori e con lui e Sauro. Un amico mi ha avvertito che era uno scherzo crudele. Informerò la Polizia postale dell’accaduto, sperando che sia rintracciato l’autore della squallida burla.

Senza essere un grande saltatore, o un gigante di “soli” 2 metri  è entrato nella All  of Fame  Sauro Bufalini che lascia una grande moglie, due figli, tanti nipotini e la sua poltrona tristemente vuota che con la malattia, diceva lui  con mente sempre lucidissima e parola tranciante, dava  ancora un senso alla vita.

Addio a una figura iconica del “basket bello” e rispettoso  che  lascia più orfano quello che sembrava  il Sangrilà dello sport italiano. Sauro Bufalini è stato un pivot-prototipo, un Barkey senza lo stesso atletismo ma un’intelligenza astuta fuori dal comune, e una capacità di sdrammatizzazione che diventava arte e collante nelle squadre dove giocava. Una volta, dopo aver passato minuti e minuti senza toccare palla  in una gara della Nazionale e dovendo sacrificarsi per fare blocchi per i suoi cecchini e prendere botta, in un time-out allungò la mano a Vittori e Lombardi, che stavano eccedendo nella loro sfida personale, dicendo queste testuali parole: “Piacere, mi chiamo Bufalini, veramente giocherei con voi”.

La sua capacità di prendere posizione, di essere il re del taglia fuori e della lunetta, dove smistava palloni come un secondo play, caratteristica che più tardi sarà riconosciuta a Cresimir Cosic, era proverbiale.

Con quelle spalle basse, sembrava uno scaricatore del porto di Livorno ma era un modello di tecnica nel reggere il ruolo di difendere sul pivot, allora il ruolo chiave”, lo ricorda Francesco Grotti principe del fischietto  che l’ha arbitrato quando lasciato Varese andò a Napoli per accendere l’entusiasmo di una città e poi riscaldò anche  gli animi di Venezia e della gloriosa Reyer.

Era anche un autentico  “sano immaginario”, giocava sotto dolore per un’ernia al disco “che in quei tempi non si poteva operare – racconta Guidocarlo Gatti  che ha giocato nella prima Ignis e per 10 anni assieme in nazionale –  e giocava nonostante i problemi alla schiena, sosteneva la squadra e i compagni. Un uomo brillante, che sapeva raccontare barzellette e portare il buonumore, ma anche essere il richiamo alla serietà e all’altruismo che ci vuole in campo e in ogni cosa”.

Ah, e la sua  famosa intervista-manifesto natalizia che circola ancora sulla rete?.  Non si trattava altro che del  riassunto del suo libro, fatale che scrivesse il suo disgusto perché era un divoratore di libri, ne leggeva anche due-tre a  settimana dopo aver gestito il forno di famiglia nel quale, col suo grembiulone bianco, incantava le sue clienti giocando con le battute sul piacere dello sfilatino. L’ho visto all’opera, giuro, con i miei occhi. Da morir dal ridere.

Il suo libro s’intitola “Palle, onori e pallonari”, in America sarebbe stato un best-seller, ma il basket nostrano  oggi controlla e copre ogni cosa, anche l’opinione, siamo al minicul-pop e francamente non se ne può più. Tutto finisce in polemiche, contrapposizione ed esposti che restano però  nel cassetto.

Un paio di passi dell’intervista “natalizia” fanno capire bene  la sua irritazione per i molti venditori di fumo nei quali si è imbattuto, fortuna non ha incontrato quelli di oggi, insolenti e fintamente potenti che riescono a far credere magari quello che non sono. Ma andiamo avanti, e divertiamoci (poco) con questa invettiva di grande attualità, basta scorrere  le vicende agonistiche stucchevoli e i risultati delle ultime due settimane per far capire alla tipologia  cui (probabilmente) si riferiva.

Oggi vedi allenatori travestiti da Pat Riley, con i capelli impomatati, tutti perfettivi, tutti uguali. Ma io mi tengo allenatori come Tonino Zorzi che a quasi 80 anni questi replicanti se li mangia tutti”.

Se n’è andato col rimpianto espresso in una domanda: “Dove sono finite la milanesità, la pesarità, la  livornesità ?”.

Oggi, caro Causo, quei centri di passione provincialmente sani sono feudi, con la loro stampa, le loro Tv, i loro “esrciti”, la convinzione di essere il centro del mondo. Lasciamoglielo credere se vogliamo che il basket vada ancor peggio. Il basket degli affari, appunto, non è più un bell’affare. Caro Sauro, nel libro c’è una verità che Philip Roth ripete spesso esaltando lo sport preferito: “Il basket è un’altra cosa”.

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